Abbiamo scoperto, e ammettiamo di averlo fatto recentissimamente, che la fantascienza è uno strumento straordinario per dare un senso alle contraddizioni del contemporaneo e per costruire le utopie necessarie a immaginare la città del futuro.
Siamo entrate in contatto con il mondo fantascientifico in un luogo davvero unico al mondo, il MUFANT _ Museo della Fantascienza e del Fantastico di Torino, l’unico nel panorama nazionale e internazionale che si dedica a riunire, collezionare, divulgare la fantascienza e il fantastico a tutto tondo. L’abbiamo visitato in occasione del lancio del progetto Tecno Profezie, l’hub di welfare culturale che combatte le diseguaglianze sociali e le fragilità delle periferie urbane attraverso l’innovazione culturale, sociale e digitale (approfondiremo meglio nelle prossime Cartoline). Per l’occasione Mufant e i dipartimenti di Filosofia e Scienze dell’Educazione e di Informatica dell’Università degli Studi di Torino (partner di progetto) hanno organizzato una visita guidata nella periferia torinese davvero fuori dal comune.
Poche e pochi sarebbero mossi dall’entusiasmo di una visita nella periferia di una metropoli senza la promessa di itinerari tra murales, graffiti e archeologia industriale (tra le altre cose ormai scontati). Invece, come l’antropologo Francesco Vietti è riuscito a sottolineare, è proprio nell’apparente banalità dei suoi scorci, nel finto anonimato degli spazi, nella vita nascosta tra gli interstizi di asfalto e cemento che la periferia svela il suo lato migliore. Ovviamente è necessario saperlo riconoscere e la lettura fantascientifica può giocare un ruolo determinante. Francesco ha riletto alla luce di estratti di libri di fantascienza alcuni luoghi emblematici della periferia che si sono così trasformati da spazi senza qualità a occasioni per immaginare scenari futuri o per spiegarsi le contraddizioni del presente. Dai confini invisibili di opposte anime urbane alle discariche, dai condomini apparentemente autosufficienti agli skatepark, dalle distese di cemento alla vegetazione che nonostante tutto resiste, ciascuno di questi elementi concorre a dare forma ad un paesaggio molto più fantastico di quello che si possa credere e soprattutto molto più potenziale di quello che possiamo immaginare, come insegna il manifesto solar punk che ha chiuso la visita guidata con una sferzata di ottimismo.
Vi riportiamo le pieghe dei libri che hanno svelato le pieghe dei luoghi. Se potete, vi consigliamo di leggere questa cartolina magari sedute/i sul cordolo di un marciapiede nella periferia della vostra città, così da stimolare quel mondo fantastico di visioni, riflessioni e scenari che ci ha accompagnato durante la passeggiata con Francesco.
Buona lettura!
LA CITTÀ & LA CITTÀ di China Mieville 2009
Oltrepassammo la Camera comune, il cui enorme ingresso assomigliava a una caverna secolare costruita dall’uomo. Il palazzo è molto più grosso di una cattedrale, e più largo di un circo romano. È aperto sui lati a est e a ovest. A livello del suolo per i primi quindici metri coperti a volta, più o meno, è un grande asse viario semichiuso, punteggiato da pilastri, con le correnti di traffico separate da muri, e costrette a muoversi a singhiozzo per i posti di blocco.
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Se qualcuno aveva bisogno di recarsi in una casa fisicamente attacca alla sua, ma nella città contigua, la faceva in una strada differente, sotto un potere ostile. È questo che gli stranieri raramente capiscono. Un residente besz non può percorrere pochi passi, in una casa altra appena al di là della sua, senza commettere una violazione.
Ma bastava oltrepassare la Camera comune e lui o lei potevano lasciare Beszel, e alla fine del palazzo rientrare esattamente (in senso fisico) dove erano appena stati, ma in un altro paese, come turisti, visitatori straniati, in una strada che condivideva la latitudine-longitudine del loro indirizzo, una strada che non avevano mai visitato prima, la cui architettura avevano sempre fatto in modo di disvedere, in un palazzo di UI Qoma praticamente attaccato al loro, ma nella stesso tempo a una città intera di distanza, non più visibili da lì adesso che erano tornati, attraversando l’intera Violazione, a casa loro.
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Esistono dei posti non intersezionati, ma dove Beszel è interrotta da una sottile parte di UI Qoma. Da bambini ce la mettevamo tutta per disvedere UI Qoma, come i nostri genitori e insegnanti ci avevano addestrato a fare in modo incessante (l’ostentazione con la quale noi e le nostre controparti ul qomane usavamo non vederci gli uni con gli altri quando ci trovavamo praticamente gomito a gomito era impressionante). Avevamo l’abitudine di lanciare sassi oltre l’alterità, fare tutto il giro di Beszel e andare a riprenderceli, per poi discutere se avevamo fatto bene o male. Naturalmente la Violazione non si era mai fatta viva. Facevamo lo stesso con le lucertole locali. Quando andavamo a riprenderle erano sempre morte, e dicevamo che le aveva uccise il piccolo volo attraverso UI Qoma , anche se magari era stato l’atterraggio.
Traduzione di Maurizio Nati, Fanucci editore, 2017
PECHINO PIEGHEVOLE di Jingfang Hao – 2012
Alle prime luci dell’alba, la città si piegava e spariva dentro la terra. I palazzi si inchinavano come umili servitori, si abbassavano con deferenza, toccandosi i piedi con la testa, per chiudersi su se stessi. Poi si spezzavano e si piegavano ancora in due per infilare capo e braccia negli spazi vuoti. I poliedri compatti che si venivano a formare ruotavano fino a comporre un gigantesco e perfetto cubo di Rubik pronto a sprofondare in un lungo sonno. A quel punto la terra ruotava. I singoli lotti giravano attorno al proprio asse di centottanta gradi, rivelando gli edifici sull’altro lato che si aprivano ergendosi nel cielo grigio azzurro come animali che escono dal letargo. L’isola della città si stagliava nella luce arancione, aprendosi e raddrizzandosi in mezzo alle fitte nuvole grigie.
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Pechino si suddivideva in tre spazi. Dalle sei del mattino alle sei del mattino seguente c’era lo Spazio Uno, con i suoi cinque milioni di abitanti. Poi veniva il momento del riposo e la terra ruotava. Sull’altro lato convivevano lo Spazio Due e lo Spazio Tre. Nello Spazio Due c’erano venticinque milioni di persone, e il loro orario partiva alle sei del mattino del secondo giorno e terminava alle dieci di sera. I cinquanta milioni dello Spazio Tre avevano a disposizione solo otto ore, il lasso di tempo tra le ventidue e le sei del giorno seguente. Poi ricompariva lo Spazio Uno. Il tempo era stato accuratamente diviso con una pianificazione ottimizzata perché i cinque milioni dello Spazio Uno godessero appieno di ventiquattro ore e gli altri settantacinque milioni si spartissero le successive ventiquattro.
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Lao Dao abitava nello Spazio Tre da quando era nato. Ed era consapevole di quale vita aveva in sorte, senza bisogno che glielo spiegasse Pen Li. Lavorava alla discarica da ventotto anni e avrebbe continuato a farlo per tutto il futuro che era in grado di prevedere. Non aveva trovato un senso a quella sua vita solitaria, ma non per questo si era abbandonato al cinismo. Continuava a svolgere il proprio ruolo dentro la sua esistenza irrilevante.
Era nato a Pechino. Anche il padre lavorava in discarica. Secondo i suoi racconti, aveva trovato quel posto proprio quando Lao Dao era venuto al mondo e così avevano festeggiato per tre giorni di fila. Prima faceva il muratore e come tanti altri da ogni parte del paese si era spostato a Pechino in cerca di occupazione. Avevano edificato la città pieghevole con le loro mani, ricostruendo un quartiere dopo l’altro, come termiti alle prese con una casa di legno.
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Trovare impiego presso la discarica non era semplice. Per quanto si trattasse di gestire i rifiuti, la selezione era stata scrupolosa; i candidati dovevano essere forti e molto abili a differenziare e catalogare, poi era un mestiere duro, non si poteva essere sensibili ai cattivi odori o a disagio in quell’ambiente lavorativo. Il padre di Lao Dao si era armato di forza di volontà, aggrappandosi alla sottile speranza di ottenere quell’opportunità insieme a una marea di altra gente e dopo l’ondata era rimasto sulla riva, aveva avuto il posto. Aveva sgobbato vent’anni a testa bassa e schiena curva immerso nell’odore nauseante di rifiuti ed esseri umani. Aveva costruito la città, ci abitava e la smaltiva.
Traduzione di Silvia Pozzi, ADD Editore, 2020
IL CONDOMINIO di James Graham Ballard – 1975
Si sporse fuori dal parapetto e scrutò la facciata del palazzo sopra di lui, contando i balconi con attenzione. Come sempre, però, le dimensioni dell’edifico di quaranta piani gli diedero il capogiro. Abbassando gli occhi sulle piastrelle del pavimento, si appoggiò allo stipite della porta. L’immenso volume di spazio aperto fra il suo condominio e il grattacielo vicino, a circa quattrocento metri di distanza, sconvolgeva il suo senso di equilibro. A volte aveva la sensazione di vivere sulla navicella di una ruota gigante del luna park, sospesa in permanenza a trecento piedi dal suolo.
Nonostante tutto, Laing era sempre felicissimo di quel grattacielo, il primo a essere stato terminato e abitato di cinque unità identiche, facenti parte di un unico progetto immobiliare. Nell’insieme occupavano un’area di un chilometro quadrato e mezzo in una zona di bacini portuali e depositi abbandonati, lungo l’argine settentrionale del fiume. I cinque grattacieli sorgevano sul limite orientale dell’area, e guardavano su un laghetto ornamentale che, al momento, era solo un catino vuoto in cemento, circondato da parcheggi e macchinari edilizi. Sulla riva opposta sorgeva l’auditorio, appena completato, con la Facoltà di Medicina da un lato e in nuovi studi televisivi dall’altro. Le imponenti proporzioni delle strutture architettoniche in vetro e cemento, insieme alla sensazionale posizione, su un’ansa del fiume, separavano nettamente quell’area residenziale dalle zone circostanti in via di disfacimento, piene di cadenti ville con terrazza dell’Ottocento e fabbriche vuote, già pronte per la ristrutturazione e il recupero.
Nonostante la vicinanza alla City, circa tre chilometri a ovest lungo il fiume, i palazzi e gli uffici del centro di Londra appartenevano a un altro mondo, nel tempo e nello spazio.
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Là, invece, le dimensioni della sua vita erano lo spazio, la luce e i piaceri connessi a una sfumata, sottile forma di anonimato. Per raggiungere l’Istituto di Fisiologia ci volevano cinque minuti di macchina e, a parte quest’unica uscita, la vita di Laing correva nel grattacielo indipendente e autonoma quanto il palazzo stesso. Di fatto, quella struttura abitativa era una piccola città verticale, con i suoi duemila abitanti inscatolati nel cielo. Gli inquilini erano collegialmente proprietari del palazzo, che gestivano direttamente attraverso un amministratore che abitava lì e il suo staff.
A causa delle sue dimensioni, il grattacielo conteneva una notevole gamma di servizi. L’intero decimo piano era occupato da un’ampia galleria, larga come il ponte di una portaerei, che ospitava un supermarket, una banca, un parrucchiere, una piscina con palestra, uno spaccio di liquori fornitissimo e una scuola materna per i pochi bambini piccoli dell’edificio. Sopra Laing, al trentacinquesimo piano, c’erano una seconda piscina, più piccola, una sauna e un ristorante. Contentissimo di quell’eccesso di comodità, Laing faceva sempre meno lo sforzo di uscire dall’edificio. Tolse dagli scatoloni la sua collezione di dischi e fece partire la colonna sonora della sua nuova vita, passando il tempo seduto sul balcone, a guardare i parcheggi e le piazze di cemento sotto di lui. Anche se il suo appartamento era solo al venticinquesimo piano, per la prima volta aveva la sensazione di dover abbassare gli occhi invece di alzarli, per guardare il cielo. Ogni giorno che passava le torri del centro di Londra apparivano un po’ più distanti, il paesaggio di un pianeta abbandonato che, piano piano, gli usciva di mente. A paragone con la quieta e sgombra geometria dell’auditorio e degli studi televisivi sotto di lui, l’orizzonte sfilacciato della città assomigliava all’encefalogramma disordinato di una crisi mentale irrisolta.
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All’inizio Laing trovò un po’ alienante il paesaggio di cemento dell’area residenziale, gli sembrava un’architettura pensata per la guerra, se non altro a livello inconscio. Dopo tutte le tensioni del divorzio, l’ultima cosa su cui avrebbe voluto affacciarsi ogni mattina era una fila di bunker di cemento.
In ogni caso, sua sorella fece presto a convincerlo del fascino impalpabile di vivere in un grattacielo di lusso. Di sette anni più vecchia di lui, Alice aveva fatto un’accurata valutazione delle necessità del fratello, nei mesi successivi al divorzio. Aveva messo l’accento sull’efficienza dei servizi del palazzo, sull’assoluta privacy. “Sarebbe come se ci stessi da solo, in un edificio vuoto…Pensa a questo, Robert.”
[…]
La brillante immagine di sua sorella, che vedeva Laing solo in un edifico vuoto, era più prossima alla verità di quanto lei stessa credesse. Il grattacielo era un’immensa macchina progettata per servire non la collettività degli inquilini, ma il residente individuale e isolato. Il suo armamentario di tubature per l’aria condizionata, ascensori, scivoli per l’eliminazione dei rifiuti e sistemi di commutazione elettrica assicurava una fornitura ininterrotta di cure e attenzioni che, un secolo prima, avrebbero richiesto un esercito di servitori instancabili.
Traduzione di Paolo Lagorio, Feltrinelli, 2014
SNOW CRASH di Neal Stephenson – 1992
Il recapito della pizza é ora un’industria di prim’ordine. Un’industria ben organizzata. C’é gente che, per imparare il mestiere, ha frequentato l’Università di CosaNostra Pizza per quattro anni. Sono arrivati dall’Abkazia, dal Ruanda, da Guanajuato, dal New Jersey del Sud, senza sapere scrivere una frase in inglese, e sono usciti che conoscevano la pizza più di quanto un beduino conosca la sabbia.
La confezione della pizza è ora in rigida similtartaruga ondulata, con una piccola spia luminosa, su un lato, che ricorda al recapitator quanti minuti antieconomici sono trascorsi dal momento della fatidica telefonata. Ci sono i chip e tutto il resto. Le pizze sono riposte in piccoli scompartimenti dietro la testa del recapitator. Ogni pizza plana nel suo scompartimento come un circuito in un computer e si sistema al suo posto non appena la scatola intelligente si interfaccia col sistema di bordo dell’auto del recapitator. L’indirizzo del cliente è stato già dedotto dal numero di telefono e inserito nella RAM incorporata nella scatola intelligente. Questa lo comunica al computer di bordo che a sua volta individua e proietta il percorso ottimale su un dispositivo *ad hocchio* – una piantina luminosa a colori tracciata sul parabrezza in modo che il recapitator non debba nemmeno abbassare lo sguardo. Se il tempo limite di trenta minuti scade, la notizia del disastro viene immediatamente comunicata al quartier generale di CosaNostra Pizza.
Hanno appena dato al recapitator una pizza sfornata da venti minuti. Guarda l’indirizzo: è a venti chilometri di distanza.
Il recapitator caccia un urlo involontario e pigia sull’acceleratore.
Ce la può fare. È alla sua portata. Attiva le luci arancioni al massimo. Accende i fari anteriori a intermittenza.
Sul parabrezza incombe 22:06; tutto quello che riesce a vedere e a pensare e’ 30:01.
*Tock*. Sul parabrezza si accendono altre luci rosse: il sistema di sicurezza periferico del veicolo è stato eluso. No. Non è possibile. Qualcuno gli sta alle calcagna. Vicino alla fiancata sinistra. Una persona sullo skateboard corre in autostrada alle sue spalle, proprio quando sta mettendo la freccia per svoltare in Heritage Boulevard. Il recapitator, in un momento di distrazione, ha permesso che lo pionassero. È un po’ come essere arpionati – da un grosso elettromagnete, rotondo e imbottito, attaccato a un cavo di aracnofibra. Ha appena colpito il retro dell’auto del recapitator e ci si è attaccato. Tre metri e mezzo dietro di lui, il proprietario di questo maledetto arnese sta facendo surf, un corsa gratis – viaggia sullo skateboard come su una tavola da sci nautico trainata da una barca. Vede sprazzi arancioni e blu balenare nello specchietto retrovisore. Il parassita non è solo un punk che si diverte. È un libero professionista al lavoro. La tuta arancione e blu tutta rigonfia di rinfor-gel sinterizzato è l’uniforme da korriere. Un korriere RadiKS, Radikal Kourier System. Tipo i pony-express in bicicletta, ma cento volte più irritanti perché non pedalano da soli, ti si agganciano e ti frenano. Ovvio. Il recapitator aveva fretta, le luci lampeggiavano, le superfici di contatto stridevano. Era la cosa più veloce sulla strada. Era naturale che il korriere lo scegliesse come appiglio. Non c’è bisogno di agitarsi. Prendendo la scorciatoia per il MAWH guadagnerà un bel po’ di tempo. Sorpassa un’auto più lenta nella corsia centrale e gli si mette davanti. Il korriere deve per forza spionarsi se non vuole essere scaraventato contro il veicolo più lento. Ecco fatto. Ora il korriere non si trova piu’ a tre metri e mezzo di distanza… è lì che sbircia dal vetro posteriore. Avendo intuito la manovra, il korriere ha riavvolto il cavo, che è attaccato a un manubrio contenente una bobina elettrica, e ora si trova sul tetto della pizzamobile, con le ruote anteriori dello skateboard sotto il paraurti posteriore del recapitator. Una mano guantata arancione e blu da cui pende un pezzo di plastica trasparente si protende e colpisce di piatto il finestrino a fianco del guidatore. Il recapitator si è beccato l’adesivo. E’ largo trenta centimetri. A lettere cubitali arancioni, stampate al contrario perché il recapitator possa leggere dall’interno, c’e’ scritto: MOSSA BANALE
Traduzione di Paola Bertante, Mondadori, 2022
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